Danilo negli anni '70 lavora su un
progetto poetico che riunirà le sue precedenti raccolte.
L'emblematico titolo sarà “Creatura di creature” e gli farà
vincere nel 1979 il “Premio Internazionale Viareggio”
Si separa dalla moglie Vincenzina e va
a convivere con una giornalista svedese da cui avrà altri due figli
ma dopo qualche anno lo lascerà.
Nel 1980 viene invitato dall'Unesco a Parigi per partecipare ad un "Simposio internazionale sull'evoluzione dei contenuti dell'educazione generale nel prossimo ventennio"
Nel 1981, in Scandinavia, viene
proposto per il premio Nobel alla pace.
Negli anni ottanta e novanta, Danilo,
preoccupato dall'involuzione democratica derivante dal controllo dei
mass-media che emargina il dissenso, si concentrerà soprattutto
sulla distinzione tra trasmettere e comunicare, tra dominio e potere.
Danilo Dolci avverte infatti i pericoli
connessi alla comunicazione di massa che non comunica più ma si
limita a trasmettere unilateralmente.
Danilo, in questi tempi, sta vivendo
una lunga e dolorosa malattia dovuta al diabete ma non smette di
sognare: vorrebbe vedere non più la diga sul fiume Jato solamente
come un bacino d'acqua utile per l'agricoltura ma anche come meta
turistica, come luogo di svago nel tempo libero, come luogo di sport
(pesca e canottaggio).
Nel 1996 riceve una laurea
honoris causa presso l'Università di Bologna.
La mattina del 30 dicembre 1997 un
infarto lo spegnerà, a 73 anni, in quel di Trappeto.
Questa è la storia di colui che veniva
chiamato “il Gandhi di Sicilia”
I figli Libera e Cielo dissero di non
aver avuto grosse difficoltà nello scegliere l'abito da mettergli
perché, per sua scelta, nell'armadio c'era poco oltre al suo
maglione blu, alla sua tuta ed al suo basco.
Gianni Rodari (di cui oggi possiamo
vantare una sua intitolazione nel nostro Paese) disse: “Danilo
Dolci non è il Socrate che aspetta i discepoli sul traguardo del
concetto ma il ricercatore che avanza con i compagni, crescendo con
loro, educandosi con loro”
Mi piace concludere con un pezzo di una
lettera che Franco Alasia (stretto collaboratore di Danilo) scrisse:
“Di Danilo una prima cosa direi che mi pare essenziale componente
della sua complessa personalità: è stato un autentico spirito
religioso prima che, ed insieme, poeta... Uso il termine religioso
non nel senso confessionale, piuttosto col significato che gli dava
Aldo Capitini: religione è una libera aggiunta. Un qualcosa in più
che si dà liberamente... Questo tendere all'essenza delle cose,
della vita, non è religiosità? Quanto dista la poesia dalla
religione? ... Ricordo che in una occasione Danilo m'aveva fatto
vedere un promemoria della sua ragazza, segnato a metà giugno del
'48: “ricordati che ci sposiamo” diceva. Eravamo in gennaio,
febbraio forse. Voleva bene alla sua ragazza. In corso Sempione a
Milano lo attendeva uno studio d'architetto. Una professione direi
fantastica quella dell'architetto, no? Non un avvenire incerto per
lui dopo la laurea ma una prospettiva concretamente allettante. Una
sera mentre l'accompagnavo alla fermata del tram Monza-Milano al
Rondò di Sesto San Giovanni ne parlammo e lui mi disse di no, che
non avremmo accettato quell'occasione. Perché? Correva il rischio,
pur con un lavoro tanto dignitoso quanto affascinante, di riservarsi
un futuro “di costruttore di case per ricchi”. Lui era invece
molto interessato a quanto si faceva a Nomadelfia, la città fondata
da Don Zeno Saltini in Emilia, nell'ex campo di concentramento
nazista di Fossoli. Là dove si tentava la generosa utopia di una
società che voleva vivere la legge dei fratelli, cominciando con
l'accogliere i più deboli e indifesi: i bambini, gli orfani, per
dare loro una famiglia. Sperava che la sua ragazza l'avrebbe seguito
ma non fu così. La perse. Scegliendo di fare quanto credeva giusto.
Danilo, come uomo può aver commesso sbagli, ne ha commessi
senz'altro.
Di una cosa sono testimone: nelle scelte ha sempre
cercato di discernere il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto. Non
chiudendosi in sé stesso. Cercando, sollecitando consigli di altri.
Confrontandosi. Per avvicinarsi sempre di più all'essenza del vero e
del giusto. Cosa per cui è necessario essere liberi...consapevoli
che l'amore è tanto indispensabile quanto insufficiente, che
conoscenza, tecnica, professionalità e coraggio lo devono integrare.
Danilo, come Piaget, credeva nella saggezza dei cosiddetti ignoranti,
quelli che lui chiamava gente semplice; che vanno interpellati,
sentiti e coinvolti in un processo di liberazione necessario al
nostro sviluppo reciproco. Mi diceva, ricordo, che gli sarebbe
piaciuto poter fare da trait d'union tra la cosiddetta alta cultura
(che è veramente alta quando non è soltanto erudizione) e la
cultura popolare. Quella della gente semplice...”
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