È primavera 2016 e
siamo, come cittadini italiani, chiamati a votare per il referendum
abrogativo sui progetti petroliferi in mare sbloccati nel 2012 dal
governo Monti.
L'appuntamento è
importante e, anche se l'argomento non è di immediata comprensione,
in ballo potrebbe esserci il futuro dello sviluppo energetico del
nostro paese.
Ecco il quesito che
si troverà sulla scheda: “Volete voi che sia abrogato l'art. 6,
comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.
152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239
dell'art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge
di stabilita' 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la
durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di
sicurezza e si salvaguardia ambientale”?”
Il
referendum riguarda solo le trivellazioni che vengono effettuate
entro le 12 miglia marine (circa 22 km) e sono complessivamente 21: 7
in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata, 2 in Emilia
Romagna, 1 nelle Marche e 1 in Veneto.
Queste
trivellazioni sono effettuate da compagnie estrattive sulla base di
una concessione che ha la durata iniziale di 30 anni e che poi può
essere prorogata due volte per cinque anni ciascuna, per un totale di
40 anni. La norma inserita nella legge di stabilità dice invece che
quando il periodo concesso termina, l'attività può essere
continuata fino all'esaurimento del
giacimento.
Si
chiede semplicemente che si torni alla scadenza delle concessioni.
Il
cuore politico della questione è la scelta di campo in tema di
energia, clima ed ambiente.
Le
trivellazioni nel nostro mare estraggono soprattutto gas metano, che
copre circa il 10% del fabbisogno nazionale. Oggi l'Italia produce
più del 40% della sua energia da fonti rinnovabili, con 60mila
addetti tra diretti ed indiretti e con una ricaduta economica di 6
miliardi di euro.
Mentre
si auspica l'aumento delle energie verdi, l'industria dei fossili
riceve aiuti pubblici, diretti ed indiretti, per 5300 miliardi di
dollari l'anno, pari al 6,5% del PIL mondiale. Inoltre la produzione
e l'uso di energia da combustibili fossili rappresenta oltre il 75%
delle emissioni totali che compromettono il clima del pianeta su cui
viviamo.
Possiamo dare un
segnale forte in favore di una scelta di sostenibilità futura ed una
sterzata nella direzione delle fonti rinnovabili. La vittoria del
“Sì” avrebbe un effetto politico e simbolico che potrebbe
spingere la politica a fare passi verso le energie rinnovabili, a tal
punto che potrebbe essere sintetizzato così: se sostengo l'energia
fossile voto “No” mentre se “sostengo l'energia rinnovabile”
voto “Sì”; votare “Sì” non vuol dire cancellare l'energia
fossile da questo Paese e votare “No” non è evitare la perdita
di posti di lavoro.
Alla Conferenza ONU sul Clima
tenutasi a Parigi lo scorso dicembre, l'Italia e altri 194 Paesi
hanno sottoscritto un impegno a contenere la febbre della Terra entro
1,5°C, perseguendo con chiarezza e decisione l'abbandono delle fonti
fossili. Fermare le trivelle vuol dire essere coerenti con
quest'impegno.
Ci troviamo davanti
ad una schizofrenia della politica che non riesce a sintonizzare le
strategie nazionali con gli impegni assunti in ambito internazionale.
Luca Iacoboni,
responsabile della campagna Clima ed energia di Greenpeace Italia:
“Ancora una volta su un tema vitale come il contrasto ai
cambiamenti climatici, l'Italia dimostra scarso coraggio e mancanza
di leadership… Inoltre, la credibilità del nostro Paese è
pesantemente minata dai piani del governo nazionale che,
inspiegabilmente, continua a puntare sulle trivelle, affossando
rinnovabili ed efficienza”
Le politiche che
oggi vengono portate avanti non le aveva promesse nessuno e l'Italia
ha bisogno di una pianificazione strategica e questa non si fa con
prospettiva a tre anni; 3 anni, infatti, è il tempo in cui si
esaurirebbero le riserve di idrocarburi presenti in Italia. Per i più
pessimisti, le riserve di petrolio presenti nel mare italiano
basterebbero a coprire solo 7 settimane di fabbisogno energetico,
quelle di gas appena 6 mesi.
Sicuramente la
nostra dipendenza dall'estero per i prodotti energetici è pesante, però è da tenere in considerazione che oggi il prezzo degli
idrocarburi è estremamente basso e ciò ci è favorevole. Questo prezzo sta mettendo in difficoltà i produttori che stanno
riducendo fortemente gli investimenti destinati all'esplorazione ed
alla ricerca di nuovi giacimenti.